SAN CALOGERO

San Calogero patrono di Agrigento

Oggi dedichiamo il nostro venerdì a parlare di San Calogero, uno dei santi più amati e venerati nella Sicilia occidentale perché nella cultura contadina è ritenuto il santo protettore del raccolto estivo. Il nome Calogero significa “bel vecchio”, termine con cui si designava colui che viveva da eremita.

La storia di san Calogero

La tradizione popolare presenta il santo come un uomo dotato di poteri taumaturgici, in quanto curava e guariva i malati. Quando morì, il suo corpo venne seppellito sul monte Kronio. Successivamente le reliquie del santo furono trasferite nel monastero di San Filippo di Fragalà, presso Messina. Le notizie sul santo sono tramandate dalle biografie contenuti in due testi liturgici: secondo il primo testo Calogero, nato presumibilmente a Cartagine, sbarcò in Sicilia nel V secolo d.C., dove visse in una grotta nei pressi di Lilibeo, l’attuale Marsala, curando gli infermi e convertendo i pagani alla fede cristiana, Diversamente, secondo l’altro testo (del 1610), Calogero sarebbe nato a Costantinopoli e dopo una vita di preghiere e di digiuni si sarebbe recato a Roma, dove ottenne dal papa il permesso di vivere in solitudine. In seguito a una visione divina, si sarebbe recato in Sicilia fermandosi per un breve periodo nell’isola di Lipari, nelle Eolie. Successivamente, in seguito ad un’altra visione, il santo sarebbe andato sul monte Gemeriano, l’antico monte Kronio, presso Sciacca – di cui il santo compatrono è insieme alla Madonna del Soccorso – dove si guadagnò la fama di santo perché, oltre a scacciare i sacerdoti pagani che celebravano riti idolatri sul monte Kronio (nome connesso al culto di Kronos, per i Romani Saturno, protettore dell’agricoltura), divenne popolare soprattutto per la sua opera di taumaturgo. Si era guadagnato tale fama curando i malati che si recevano da lui con i vapori delle grotte, di cui aveva intuito le proprietà benefiche. Da allora i vapori delle grotte di Sciacca presero il nome di “stufe di Calogero” e ancora oggi mantengono intatta la suggestione del passato.

Il culto di San Calogero

Il culto di san Calogero è legato al miracolo avvenuto nel 1578, quando Sciacca fu flagellata da continue scosse di terremoto e la popolazione non sapeva a che santo votarsi. La Compagnia di San Vito pensò in quella occasione di promettere a san Calogero una processione se avesse salvato il paese dal terremoto. Il miracolo avvenne e da allora, come ringraziamento al santo, si svolge un pellegrinaggio che puntualmente si ripete ogni anno, il lunedì dopo la Pentecoste.

Il Pitrè, a proposito dei devoti che usavano compiere tale pellegrinaggio al santuario, che si trova poco distante da Sciacca e custodisce la statua del santo eseguita da Antonello e Giacomo Cagini nel 1538, narra che i pellegrini venivano chiamati leti, e spiega la ragione: «ed anche oggi è uno spettacolo esilarante quello di siffatti pellegrini, andati con le migliori intenzioni religiose, e che tornano troppo allegri, se non briachi fradici.» San Calogero morì il 18 giugno del 561, giorno in cui viene festeggiato nella maggior parte dei comuni dell’isola di cui è patrono.

I riti agrigentini

agrigento

Ad Agrigento, nonostante il patrono principale si san Gerlando, gli agrigentini sono molto devoti a san Calogero, al quale tributano dei solenni festeggiamenti. Anticamente il festino per il santo durava circa un mese, mentre oggi si limita alla prima settimana di luglio. I festeggiamenti iniziano dal giovedì con la benedizione, da parte del vescovo, della divisa dei portatori del simulacro, la pazienza, una camicia bianca che reca sul petto lo stemma di san Calogero. Fra gli atti devozionali che si compivano nella festa di una volta il Pitré narra che era usanza tra i devoti promettere il viaggio da svolgersi durante il mese di maggio da casa fino alla chiesa, anche a piedi scalzi, recitando mentalmente delle preghiere durante il percorso. Appena giunti in chiesa, i fedeli che avevano compiuto il viaggio usavano fare un atto di penitenza, comune in altre feste religiose siciliane di una volta, che consisteva nello strisciare la lingua davanti alla statua del santo. Un’altra usanza era l’offerta di sacchi di frumenti e di oggetti di cerca a forma di membra umane.

Durante i festeggiamenti i fedeli più devoti osservavano per penitenza il cosiddetto dijuno addumannatu: digiuno durante il quale si mangiava soltanto ciò che si riceveva in elemosina. Un altro uso penitenziale consisteva nel fare il percorso da casa alla chiesa con ai piedi soltanto delle calze. Era il cosiddetto viaggio ni piduni, usanza che tutt’oggi si ritrova tra i fedeli particolarmente devoti. Ad una settimana dalla grande festa, alcuni percorrevano le strade del paese con i tamburi per suonare la diana, dandosi appuntamento davanti alla chiesa dove, una volta disposisi a cerchio, davano inzio alla tammuriata di san Calò.

Se volete scoprire la storia di un altro santo siciliano, vi consigliamo di leggere il nostro articolo dedicato a San Michele!


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